Shared Value e Purpose Approach nel Terzo Settore

La teoria – Shared Value

 

Dopo la catena del valore di Michael Porter, che puntava a massimizzare il profitto, e la costellazione del valore di Norman, in cui il cliente diventa parte integrante della produzione, la nuova frontiera del business è lo Shared Value. Le imprese che vogliono restare sul mercato nei prossimi anni devono cioè creare valore condiviso per la comunità in cui operano, trovando un equilibrio tra il vantaggio competitivo e la responsabilità sociale. Oggi il mercato chiede alle aziende non solo cosa fanno e come, ma soprattutto perché lo fanno: ovvero quale sia il loro purpose.

Ma perché tutto questo dovrebbe interessare il Terzo Settore? Il mondo delle imprese sembra separato da quest’ultimo da un’alta muraglia, ma la grande sfida dei prossimi anni sarà quella di superare questa barriera e il compito spetta proprio agli Enti del Terzo Settore (da ora in poi ETS). Le imprese che perseguono lo Shared Value hanno infatti un bisogno, ovvero quello di contribuire al benessere delle comunità in cui operano e, in questa operazione, amministrazioni pubbliche ed ETS non possono che essere i principali partner. Esistono già degli esempi di rapporti fruttuosi tra queste realtà, anche molto recenti come le grandi catene di distribuzione durante il primo lockdown, ma restano piuttosto rare. Il compito di creare queste connessioni è affidato agli ETS, non solo perché gli altri due protagonisti di quest’alleanza hanno altre urgenze e bisogni, ma perché il Terzo Settore è nato per tessere legami e creare alleanze. Certamente non è un suo compito esclusivo, ma ha tutte le caratteristiche e le competenze per farlo meglio degli altri. Quello che occorre è una visione chiara: se gli ETS costituiscono delle alleanze con le imprese non stanno tentando di trovare risorse, ma stanno rispondendo a dei bisogni indispensabili per quelle imprese. È importante poi che gli ETS, in qualità di enti proponenti, abbiano un disegno concreto del percorso generativo che intendono intraprendere ed esplicitino il valore prodotto per le imprese e la comunità. Ma il punto di partenza è la creazione di un’alleanza con tutte quelle realtà di diversa natura che hanno un comune interesse: il welfare locale.

Il metodo – Gli scenari

 

Ovviamente la progettazione necessita di un metodo. Se è vero che nella precarietà dell’oggi nessuno ha la ricetta per fronteggiare il cambiamento, è altrettanto vero che mappare le forze in gioco in un determinato contesto può permetterci di ipotizzare cosa accadrà. Si tratta della pianificazione strategica per scenari, un metodo che permette di creare degli immaginari. Il punto di partenza, come si diceva, è l’identificazione di una serie di driving forces che influenzano la nostra società, come ad esempio l’invecchiamento della popolazione o la tendenza alla gender parity. Ma la forza degli scenari emerge quando li si descrive, ad esempio raccontando cosa potrebbe accadere se si sviluppassero le “città dei 15 minuti” e si rafforzassero le spinte comunitarie. Questo tipo di riflessione consente di sviluppare domande e possibilità di visione nuove, vedere connessioni ulteriori, assumere punti di vista differenti.

La pratica – Progettazioni generative

 

La Generatività non nasce da una teoria, ma da pratiche concrete, quelle di aziende che hanno deciso di cambiare rotta e creare benessere per la comunità.  È un modo di stare al mondo e si basa su 4 azioni: desiderare, mettere al mondo, prendersi cura, lasciare andare. Il primo verbo, desiderare, è quello che muove ogni nostra azione. La società in cui viviamo ci ha indotto a credere che desiderare significasse godere o possedere un bene, e così il desiderio è stato saturato, generando ansie e malessere. Il desiderio deve invece restare aperto per poter continuare ad evolversi. Il secondo verbo è mettere al mondo: dare vita ad una progettualità è un atto generativo se con la sua azione dà vita a qualcosa di nuovo; per questo la rigenerazione urbana oggi non può limitarsi a ristrutturare, ma deve edificare nuova vita per le comunità a cui si rivolge, diventando rigenerazione umana. La terza azione è prendersi cura, ovvero avere una visione ad ampio raggio: ciò significa puntare al raggiungimento di obiettivi a breve termine, ma contestualizzandoli in un’ottica di lungo periodo. Sono generativi quei progetti che non pretendono che la vita a cui hanno dato luogo assuma l’aspetto che loro hanno previsto, ecco perché il quarto ed ultimo verbo della generatività è lasciare andare. Una progettazione potrà dirsi quindi generativa quando: percorre queste 4 fasi, l’organizzazione che la promuove mobilita e accresce conoscenze e competenze per sé e per la collettività (autorizzazione), sceglie una prospettiva di lungo periodo (intertemporalità) e diviene fonte di ispirazione per nuove iniziative imprenditoriali e sociali.